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Umberto Calcagno: “Bisogna pensare a tutto l’indotto che il calcio porta”

Il premier Conte sabato sera ha invitato a mantenere alta la prudenza rispetto ad una ripresa del campionato, dicendo che servono più garanzie. Come interpreta le sue dichiarazioni?

“Sono parole che abbiamo sempre pronunciato tutti quanti. Purtroppo, specie nel nostro mondo, è molto facile essere fraintesi. Si è creato un dibattito acceso e quotidianamente ricco di contenuti. Ma che, al tempo stesso, ha facilitato la creazione accelerata di due blocchi. Due fazioni diametralmente opposte: il partito della ripresa e il partito dello stop. La verità è che tutti noi, di concerto con i club, Figc, Governo ed esperti, stiamo facendo il possibile per rendere concreta una ripartenza. I conti, però, bisogna farli con il virus. E la domanda di fondo che dovrebbe dominare i nostri pensieri è una: il nostro mondo potrà convivere o meno con il Covid-19? Ecco, questo è l’interrogativo principale che direziona ogni tipo di scelta”.

E la risposta che vi state dando quale sarebbe?
“Guardi, non siamo noi a poterlo dire. Ci sono degli esperti in materia. Il tempo gioca un ruolo fondamentale ed è strettamente legato anche al discorso della ripresa del campionato. Si parla spesso, giustamente, di curva epidemiologica. Ed è alla stessa che bisogna attenersi. Noi dobbiamo essere responsabili. Proprio in virtù di questo, in chiave futura la strada della convivenza con il coronavirus sembra obbligatoria. Almeno fin quando non arriverà un vaccino. E qui i tempi non si prospettano così brevi. Di conseguenza, abbiamo il dovere di predisporre misure e norme di comportamento adeguate. Come, ad esempio, la gestione dei contagi”.

Non crede ci siano troppa demagogia e ostruzionismo da parte di alcuni esponenti del mondo politico in merito alla ripresa del calcio?
“Anche qui c’è un problema di base che le altre industrie non hanno, se proprio volessimo avanzare un confronto. Il pallone è uno sport di contatto. Ed è questo il nodo principale su cui si alimentano i dubbi. Si tratta di un dato di fatto inequivocabile. Ma c’è l’impegno totale per risolvere tutto. Gli sport di squadra, del resto, hanno un certo tipo di particolarità. Ecco perché il discorso relativo all’abitudine nel dover convivere con il coronavirus è il punto dipartenza per qualsiasi tipo di programmazione. E per poterci convivere bisogna affrontare un’eventuale positività con delle precise modalità di riferimento”.

Proprio entrando nel merito del tanto discusso protocollo sanitario, partiamo da un aspetto: siete favorevoli o contrari al ritiro?
“Pensare di poter tenere chiuso perennemente il gruppo squadra dopo questi due mesi di lock-down è inimmaginabile. Anzi, dirò di più. Oggi come oggi non avrebbe senso neanche il ritiro di due settimane in assenza di una data certa di ripresa delle partite. Il problema vero è la gestione della quarantena. Senza dimenticare le difficoltà da parte dei club nel reperire strutture ricettive. Alcune società di A se ne sono rese conto constatando il tutto”.

In assenza di date concrete, con gli allenamenti come si procederà?
“Non avendo un protocollo definitivo, le squadre procederanno attenendosi alle misure del Governo valide anche per gli altri sport di squadra. Per cui, il distanziamento rimarrà”.

Il tema più caldo riguarda la gestione di eventuali positività al Covid-19 di un membro del “gruppo squadra”, così come definite dal nuovo protocollo. Perché secondo voi non sono idonee a garantire la conclusione del campionato?
“Non ne farei tanto una tesi sostenuta dalla categoria che rappresento. È un discorso oggettivo. In Serie A abbiamo 500 calciatori. Migliaia di persone che complessivamente lavorano attorno al movimento. Non è ipotizzabile che in due mesi non escano casi di positività. In virtù di questo non si può pensare di isolare l’intero gruppo squadra. È inimmaginabile uno scenario del genere. E non credo che si debba essere esperti per comprendere che se rimanesse tutto invariato, si tratterebbe di una falsa ripartenza. Il rischio di fermarsi di nuovo sarebbe altissimo”.

Il protocollo sanitario tedesco resta un modello di riferimento?
“Personalmente vi dico che non ho molto piacere nell’affidarmi a modelli. Ognuno ha la propria situazione e deve rapportarsi con il contesto in cui opera Ora la nostra priorità è quella di risolvere il problema della quarantena. Ispirarsi agli altri diventa anche antipatico e inopportuno. Ma desidero porre l’accento su un’altra questione, allargando il campo del ragionamento”.

A cosa si riferisce?
“Innanzitutto urge stabilire al più presto una data presumibile di ripartenza. Poi è indispensabile sviluppare con attenzione anche i protocolli successivi. Per intenderci, la fase di completamento degli allenamenti propedeutici all’inizio dei campionati, l’organizzazione delle trasferte e tanti altri aspetti. La necessità di avere un quadro chiaro e completo è fortissima”.

A Lei non piace affidarsi a modelli stranieri. Però, rimanendo in Germania, il caso Dinamo Dresda ha dimostrato delle incongruenze di fondo anche da quelle parti. Due positivi e squadra intera in quarantena per due settimane nonostante il protocollo preveda l’isolamento dei soli giocatori coinvolti. Cosa ne pensa?
“Lì a deciderlo è stata l’autorità locale. Le misure che hanno prevedono anche questo tipo di interventi, qualora esistano ovviamente le condizioni per farlo. Ecco perché dobbiamo guardare in casa nostra e decidere se intendiamo convivere o meno con il Covid-19. Se non si trovasse una soluzione a livello medico rimarrei estremamente preoccupato. Anche perché tra settembre e ottobre potremmo trovarci nelle medesime condizioni. Oggi la curva epidemiologica è bassa e stiamo lavorando per ripartire. In sicurezza e con prudenza. Si è parlato poco, però, dell’intero indotto del calcio”.

Si riferisce ai dilettanti e ai settori giovanili?
“Esatto, proprio così. Si dibatte tanto di indotto e del caldo come un’industria. Verissimo, nulla da obiettare. Ma si è discusso pochissimo dell’indotto intemo al nostro sistema. Ecco perché ripartire sarebbe importante. In caso di mancata ripresa della A ne risentirebbero a cascata anche le categorie sottostanti. Quindi Serie B e C, per non parlare poi dei dilettanti e dei settori giovanili. È chiaro che ciò non significa voler far partire tutti. Sarebbe utopistico pensarlo e sostenerlo. Però bisogna spingere per trovare una soluzione, salvando il movimento. Nei giorni scorsi il Consiglio Direttivo AIC ha deliberato l’erogazione di una cifra non inferiore ad un milione di euro da destinare al fondo solidaristico che dovrà auspicabilmente coinvolgere tutte le componenti del calcio, a sostegno dei calciatori e delle calciatrici, professionisti e dilettanti, che percepiscono i redditi più bassi. Un supporto concreto alle realtà spesso meno considerate”.

13 giugno per la A e 20 giugno per la Serie B: sono due date ipotizzabili per la ripresa dei campionati?
“Non sono innamorato delle date ma è chiaro che questa sarà la settimana decisiva”.

Qual è lo stato d’animo della categoria che rappresenta davanti a questi infiniti testa-coda?
“I sentimenti sono molto vari. La voglia di tornare in campo è forte. Farlo in sicurezza, però, è altrettanto prioritario”.

Proprio venerdì, tra l’altro, c’è stata la rescissione di Michael Agazzi con la Cremonese, preoccupato dal fatto che le società non riescano a garantire al 100 per cento la tutela della salute?
“Chi come Michael è originario della provincia di Bergamo e vive lì è inevitabile che abbia uno stato d’animo differente rispetto a colleghi che, magari, vivono in realtà che sono state coinvolte meno direttamente dall’emergenza sanitaria. Ritengo normale che ci siano sensibilità diverse. Del resto, accade in tutte le professioni. Non avere certezze temporali è chiaro che possa creare ulteriori insicurezze e timori. Non si può non tenere conto dell’aspetto psicologico”.

 

(Dalle pagine de “L’inchiesta”)